Chi vuole essere libero? Quasi nessuno

Dobbiamo essere più attenti che mai in questi giorni.
Abbiamo seguito le indicazioni del governo, rispettando le misure di restrizione della libertà personale. Viviamo chiusi in casa, presi dalla didattica digitale o dal Smart working. Molti non lavorano, e stanno affrontando momenti di difficoltà senza precedenti. Eppure siamo tutti d’accordo che le misure prese siano necessarie.
Ma c’è chi vuole più garanzie.
Sui social e per le strade crescono le voci di chi vorrebbe inasprire le misure di contenimento: i modelli sono a portata di mano. Ne citiamo solo alcuni: in Albania il Primo Ministro Edi Rama ha minacciato i cittadini, di qualsiasi età, di repressioni violente da parte della polizia se non rispetteranno le norme imposte dal governo.
Israele controlla i telefoni di ciascuno.
La Cina ha fermato la diffusione del virus implementando le misure di controllo della popolazione già presenti con droni dotati di altoparlanti e videocamere, telecamere a riconoscimento facciale, controllo digitale dei cittadini.
Senza esitazione, anche in Italia molti vogliono una sorveglianza più rigida, ferrea e autoritaria.
E la libertà personale? La sospendiamo. La privacy? Sospendiamo anche quella.
Cerchiamo di capire quali sono i motivi di questo atteggiamento.

Sicuramente alcuni dei comportamenti più eccessivi durante questa crisi sono stati guidati, suggeriti da alcune immagini che colleghiamo alle situazioni di emergenza.
Infatti storie simili a quella che stiamo vivendo sono già radicate nell’ immaginario collettivo. Il film “Contagion” di Steven Soderbergh (2011) raccontava di un virus nato in Cina dall’incrocio fra pipistrello e maiale, del panico collettivo e dei saccheggi dei negozi, che ricordano non troppo vagamente l’assalto ai supermercati lombardi, quando l’epidemia era ancora all’inizio.
Oppure “The End of October”, che immaginava una pandemia mondiale: la lista sarebbe lunga.
La situazione attuale non viene analizzata realmente, non si cercano le ragioni delle decisioni: è quasi come se inconsapevolmente sapessimo già come comportarci.

Oltre ai film e alle storie, c’è un precedente storico significativo: gli attentati terroristici.
Il riflesso di quei fatti si vede su diversi aspetti del presente.
Uno è l’atteggiamento verso gli altri: la diffidenza, la sensazione che rappresentino una minaccia. Nemmeno passa per la testa che stiano vivendo difficoltà simili alle nostre, se non peggiori. Sono malati, ed è come fossero terroristi, pericoli ambulanti: la conseguenza è la colpevolizzazione reciproca. In questi giorni l’hanno subita quanti sono andati a correre: molti sono stati insultati e umiliati da urla lanciate dai balconi, per quanto potessero rispettare i decreti o tenersi a distanza.

L’altro effetto del terrorismo sono state le misure antiterroristiche, che oggi in molti paesi sono state estese alla popolazione civile.
Sono state dibattute a livello internazionale e hanno avuto anche una formulazione europea. Era al centro del dibattito la seguente “equazione”: SICUREZZA = SORVEGLIANZA . Se vogliamo sentirci sicuri, dobbiamo tutti sacrificare parte della nostra privacy.
La Convenzione Europea dei Diritti Umani prevede la possibilità di limitare la libertà individuale nel caso di gravi minacce alla sicurezza nazionale. Però che cosa sia giudicabile una “grave minaccia”, ovvero che cosa sia lo “stato di emergenza”, questo è estremamente arbitrario.
Oltre al fatto che oggi, anche fuori dall’emergenza, sembra che non possa esistere sicurezza senza sorveglianza: la risposta quasi istintiva a qualsiasi problema è l’installazione di videocamere, il pattugliamento senza sosta.

Esattamente lo stesso ragionamento viene fatto in merito all’epidemia: vogliamo la salute? Dobbiamo tutti rinunciare alla nostra privacy. Se potremo sapere tutto di ciascuno, il virus sarà presto debellato.
E’ stato fatto in Israele: il primo ministro israeliano Netanyahu ha autorizzato i servizi segreti a fare uso sulla popolazione civile delle tecnologie di controllo sviluppate per combattere il terrorismo. Quando poi la commissione competente ha rifiutato di approvare la misura, Natanyahu l’ha imposta come “decreto d’emergenza”.

E’ tutto giustificato dalla situazione di emergenza. Ma c’è anche un altro elemento, determinante. Le misure di contenimento del virus sono una scelta prevalentemente politica: invece sono state accettate con passività, nell’illusione che fossero dettate da commissioni di scienziati. Abbiamo creduto che tutto fosse strettamente necessario, senza criticare.

Ma in tutto il mondo la scelta è stata politica: in Italia molte aziende sono state lasciate aperte anche senza bisogno, senza che vi fossero fatte rispettare le norme di sicurezza, esponendo i lavoratori al rischio del contagio. In Gran Bretagna, Boris Johnson aveva inizialmente annunciato che tutti gli inglesi avrebbero perso alcune persone care. La sanità avrebbe retto sicuramente, diceva.
Un sacrificio necessario e giusto per evitare il collasso della nazione.
Ma l’esempio più eclatante è il voto del parlamento ungherese del 30 marzo, che ha conferito democraticamente poteri dittatoriali al Primo Ministro Viktor Orbàn. Sospensione immediata delle elezioni e pieni poteri per affrontare la crisi epidemica. Lo stato di emergenza è stato prolungato a tempo indeterminato, e indeterminato è anche il mandato di Orbàn.

E’ proprio il fatto che le elezioni si siano svolte democraticamente che deve metterci in guardia: raramente le misure adottate in tempi di crisi si sono rivelate temporanee, e i cambiamenti che affrontiamo in questo periodo influiranno profondamente sul futuro. Tutto ciò che viene presentato come un’assoluta necessità deve essere sottoposto alla rigida critica popolare. Le misure approvate durante l’emergenza non si dovranno protrarre dopo la fine dell’epidemia: perché non succeda, non dobbiamo permettere che lo stato di emergenza sia prolungato oltre il necessario. Le giustificazioni vengono già in mente: la paura di una seconda ondata epidemica, o la precauzione per una prossima eventuale epidemia. Le misure temporanee purtroppo tendono a sopravvivere alle emergenze: sempre in Israele nel 1948, durante il conflitto arabo-israeliano, furono prese misure emergenziali come la censura della stampa e la confisca delle terre. Israele non ha mai dichiarato la fine dell’emergenza, e molte norme sono ancora in vigore.
Il confine fra necessità “scientifica” e abuso di potere non è facile da tracciare. Ma è facile fidarsi acriticamente, e non garantisce la libertà.
E non lasciamoci sedurre dall’efficienza della sorveglianza: abbiamo diritto sia alla salute che alla libertà.