Fuori a 1 metro di distanza, in carcere 8 in una stanza

Chi si ricorda a fine febbraio, quando l’emergenza coronavirus stava cominciando a prendere piede, quello che si sentiva in televisione?
“Ci sono già molti casi, ma muoiono solo quelli con patologie pregresse o con deficit immunitari, state tranquilli, l’importante è evitare affollamenti e lavarsi spesso le mani!”
C’è chi queste notizie le sentiva in carcere, chiuso in 10 metri quadri con altri 7, dove quasi tutti sono malati cronici e tutti molto deboli fisicamente, dove i piatti del pranzo si lavano nel lavandino del bagno comune, e dove non riesci a curarti neanche un mal di denti.

Negli ultimi trent’anni sono state approvate nuove leggi che hanno reso i carceri delle discariche sociali, dove i disagi di ognuno, già gravi di per sé, si sommano in un clima di caos e tensione dovuto anche al sovraffollamento del 120%.
La bomba è scoppiata quando i detenuti sono stati privati dell’unico contatto con i propri cari e col mondo esterno, le visite dei familiari, che in alcuni casi (come Bologna) non avevano notizie dei detenuti già da una settimana.
Colloqui bloccati, udienze ferme, permessi annullati, e la paura generale che monta tra le mura di una cella.
47 carceri (tra cui quelli di Modena, Bologna, Rieti, Regina Coeli, Poggioreale, San Vittore, Sollicciano e Prato) hanno dato vita a rivolte, salendo sui tetti, bruciando i lenzuoli, battendo sulle sbarre, e come sempre, in risposta solo repressione.

Si parla di manganellate, uomini trascinati nudi con mani e piedi legati e buttati su un furgone nel cuore della notte, urla che si sentivano da fuori, e ben 14 morti di cui nessuno paga il conto.
Molti dei partecipanti alle rivolte sono stati trasferiti e messi in isolamento, senza poter ricevere né dare notizie ai familiari, che per 15 giorni non hanno saputo niente di loro, come stessero, dove fossero.
Per tutti i 14 morti, la diagnosi è stata l’overdose da metadone, affibbiando così a tutti la comoda etichetta del tossicodipendente, quali invece non erano.

Ma ci sono molte cose che non quadrano in questa ricostruzione semplicistica dei fatti.
Innanzitutto, molti di loro sono morti durante il trasferimento in altri carceri, il che implica che, se anche accettassimo per buona la versione dell’overdose, è stata quindi negata loro l’assistenza medica, e invece che in una cella d’isolamento avrebbero dovuto essere portati in ospedale.
Inoltre, il metadone, a differenza degli altri farmaci e psicofarmaci, è chiuso in cassaforte, ed è inoltre solitamente ricercato da chi ha crisi d’astinenza da eroina.
E allora che motivo avevano quei detenuti, nessuno dei quali tossicodipendente, di mettersi a scassinare una cassaforte nel mezzo di una rivolta?

Queste vicende ci fanno tornare in mente il caso di Stefano Cucchi, che ha dimostrato come tutto ciò che avviene dentro le mura di una prigione, sulla pelle di un carcerato (anche lui bollato come tossicodipendente e criminale prima che come uomo), rimangono spesso e per lungo tempo tra quelle mura, e l’opinione pubblica trova in questi episodi un ennesimo capro espiatorio.

Ma ciò che è ancora più triste e indecente, è che dopo queste proteste, non è cambiato nulla.
Nessuna misura di prevenzione sanitaria è stata presa se non rimanere chiusi 24 ore su 24 in una cella, celle che per di più non sono state sanificate (come ci dice Nicoletta Dosio, militante NOTav, dal carcere delle Vallette) ma si sono limitati a fornire un misurino di disinfettante a ogni detenuto.
Sono oltre 100 i contagiati tra il personale carcerario, e i tamponi che arrivano se li spartiscono i secondini.

Anche in Francia, Spagna e Hong Kong sono scoppiate forti agitazioni nei carceri, e le reazioni non sono state migliori che in Italia.
In Francia addirittura è stato detto che se i detenuti sopravvivono all’epidemia, avranno due mesi di pena scontati, mentre in Iran, che inizialmente aveva predisposto i domiciliari per 70 mila prigionieri, la decisione è stata revocata.

Quello che lo Stato italiano dovrebbe fare per potersi definire quantomeno civile, è liberare i detenuti trasferendoli ai domiciliari, o concedendo l’amnistia per i reati meno gravi, poiché ora più che mai è una barbarie lasciare migliaia di persone in condizioni bestiali, come carne da macello, senza concedere loro gli stessi diritti di ogni altro cittadino libero.
Con la stessa indifferenza criminale con cui i lavoratori sono stati costretti ad ammassarsi nelle fabbriche, stanno creando nei carceri dei lazzaretti che gli esploderanno nelle mani.

Dagli studenti, solidarietà ai carcerati.